Drive My Car: un film non per tutti che tutti dovrebbero vedere

DATA 23 Marzo 2022 - Ermelinda Bisantis

Nell’ultimo anno, il cinema ci ha abituato sempre più a durate consistenti: il film hollywoodiano medio, infatti, ormai non è tale se dura meno di due ore e mezza. Per noi, pubblico disattento e avvezzo al consumo usa e getta delle piattaforme streaming, stare seduti davanti a uno schermo, grande o piccolo che sia, per più di due ore è un’impresa, ma ci sono quei film che, prendendosi tutto il tempo di cui hanno bisogno, riescono comunque a guadagnarsi l’attenzione -e la riflessione- dello spettatore: è questo il caso di Drive My Car. Il film, di produzione giapponese, è quest’anno candidato a ben quattro premi Oscar, nello specifico miglior film, miglior regia (R. Hamaguchi), miglior sceneggiatura non originale e miglior film internazionale: queste candidature non sono che un pallido segno dell’effettiva portata di questo film, ma costituiscono un indizio della capacità che ha di attraversare confini geografici e culturali. La trama di Drive My Car prende le mosse dall’omonimo racconto, appartenente alla raccolta “Uomini senza donne” del celebre scrittore giapponese Haruki Murakami: il protagonista Yusuke Kafuku (H. Nishijima) è un attore e regista teatrale che, dopo la morte della moglie Oto (R. Kirishima), si trasferisce per un breve periodo nella città di Hiroshima per dirigere una residenza artistica, a partire dalla quale sarà poi messa in scena l’opera teatrale Zio Vanja, del celebre drammaturgo russo Chekhov. La trama di Drive My Car può sembrare semplice, ma non è che apparenza;  la complessità della pellicola proviene dalla profondità dei suoi personaggi, non tanto legata a ciò che essi stanno vivendo nel presente, quanto a quello che hanno passato e che li ha inevitabilmente feriti e condizionati. La residenza artistica, centro di gravità del film, risulta il pretesto attraverso il quale persone totalmente diverse per età, provenienza e collocazione sociale, saranno costrette a interagire, scoprendosi a vicenda e comprendendo inaspettatamente di avere qualcosa da dare e da ricevere, primi tra tutti Yusuke e la giovane e introversa autista a lui assegnata, di nome Misaki Watari (T. Miura). Grazie alla varietà e alla costruzione stratificata dei personaggi che Drive My Car mette in campo, la distanza geografica e culturale che separa società e cinema occidentali da società e cinema giapponesi, inizia ad accorciarsi, perché qualsiasi spettatore potrà comprenderli, mentre è forse la centralità del teatro europeo, all’interno della narrazione che, più di tutto il resto, conduce alla rottura di quella sorta di vetro che, da sempre, agli occhi della maggior parte del pubblico occidentale, ha fatto apparire il cinema -e la società- giapponese come distante e mai totalmente comprensibile. Questi sono solo alcuni dei motivi per i quali Drive My Car è un film che merita di essere visto da più persone possibile, ma bisogna anche tenere a mente che si tratta di una pellicola che più di altre non può essere illustrata univocamente e che richiede tempo e concentrazione: certo è che nessuno spettatore che avrà scelto il momento giusto per visionarla potrà rimanerle indifferente.

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