I Velvet Underground

DATA 2 Dicembre 2021 - Antonio LUDOVICO

I Velvet Underground
Storia di un incubo tradotto in musica, uno schiaffo alle convenzioni di stampo americano, un pugno nello stomaco alla società conservatrice e bigotta di fine anno sessanta.  Signore e signori ecco a voi i Velvet Underground :un gruppo sicuramente all’avanguardia nel panorama eclettico della musica rock , una band controcorrente, un miscuglio di genialità e irriverenza.  E dall’impatto forte e anticonvenzionale: questo perché i loro brani avevano lo stigma della novità assoluta, esprimevano sentimenti e atteggiamenti inediti, portarono la loro sperimentazione fino al limite estremo, oltre il quale si perdono coscienza e controllo. E poi perché riuscivano a combinare sapientemente poesia e cattivo gusto, emarginazione e raffinatezza, bassifondi e violenza. La realtà era vista come un sipario dove rinchiudere i vizi più estremi, la freddezza veniva mischiata al cinismo, il trasformismo diventava arte. E come sfondo la città di New York, complice silenziosa di comportamenti e temi come la bisessualità e il travestitismo banditi dalle radio, rifiutati dalla borghesia, respinti dalla gente comune. Lou Reed era un musicista d’avanguardia, uno che, come ha detto il suo eccellente biografo Victor Bockris, “ha saputo di volta in volta reinventarsi e sopravvivere ai suoi demoni interiori, imbrigliandoli in canzoni memorabili “. John Cale era un musicista gallese molto famoso che si trasferì a New York. Il suo mentore era La Monte Young, che riteneva che una giornata fosse composta da più di 24 ore, quindi era lecito fare canzoni più lunghe dei canonici cinque minuti. Il nome Velvet Underground era il titolo di un libro sulla sottocultura newyorkese, fu Gerard Malanga a suggerirlo (ma c’è chi sostiene che in realtà la paternità sia da attribuire al primo percussionista Angus MacLise), mentre il gruppo di Lou Reed era i The Primitives. L’incontro con Andy Wharol ebbe lo stesso impatto di un tornado; Reed lo considerava un grande cane da guardia e il grande pittore americano introdusse nel gruppo la cantante Nico. Ma l’accoglienza fu fredda e a ciò contribuì anche il carattere algido della bellissima cantante/modella/attrice di origini teutoniche dalla bellezza prorompente e, forse, disturbante(soprattutto per Lou). Sterling Morrison era il chitarrista perfetto, colui che costituiva l’insieme di un gruppo, che faceva quadrare il cerchio, che non creava problemi; incontrò per la prima volta Reed all’alba degli anni ‘60, quando entrambi suonavano all’università di Syracuse ed erano originari di Long Island. In pratica , avevano frequentato gli stessi luoghi, stessi pub, stesse scuole. Maureen Tucker era la batterista quieta e distaccata, una personalità silenziosa ma preziosissima per i fragili equilibri della band. Addirittura cantava  in due brani (“Afterhouse “ e “ I’m Sticking with you”) con una voce insolitamente dolce e ammaliante. Sotto l’egida di Andy Wharol, mito incontrastato e personalità debordante negli anni sessanta, i Velvet Underground si spingeranno lì dove nessuno aveva mai osato, spostando di molto i limiti artistici di una semplice band e offrendo al pubblico del Max ‘S Kansas City o del Ballrom Farm spettacoli avveniristici che mai erano stati sperimentati prima. Ci riferiamo all’Exploding Plastic Inevitable, un mix di suoni, immagini, luci, parole e musica. Un qualcosa di incredibilmente innovativo, uno spettacolo interattivo, dove potevi vedere Gerard Malanga (un protagonista della Factory di Wharol) ballare incessantemente e agitarsi come un dannato, un suo partner occasionale afferrare una frusta e percuotere le assi del palcoscenico, le luci lampeggiare sui muri coperti di specchi, gli stessi Velvet cantare per un’ora lo stesso brano, violentando i loro strumenti . Era tutto un miscuglio disordinato e gioioso, dove scompariva ogni traccia di melodia, dove la bionda e sensuale Nico suonava persino un’armonica e l’immagine di Wharol veniva proiettata sugli schermi che circondavano il palcoscenico, il tutto tra l’incredulità generale. Obiettivamente, nulla di mai visto prima, in pratica una rock’n’roll band che si trasformava in una compagnia teatrale, tra urla strazianti e gemiti sensuali, probabilmente un qualcosa che distava anni luce dalle atmosfere pacifiste e colorate dei figli dei fiori, aborrate dal loro leader. Il  primo lavoro, denominato semplicemente “The Velvet Underground And Nico” fu senza dubbio un album epocale, che influenzò decine e decine di artisti, che spostò di molto i confini del rock’n’roll, ma che vendette poco. Anticipato nel 1966 da due 45 giri “ I’ll be your mirror/All Tomorrow Parties “ e “Sunday Morning/Femme Fatale”, l’album si rivelò nel corso degli anni un’autentica bomba a orologeria, una vertigine psichedelica, un lavoro che offriva materiale alle band per decenni. Come non citare, infatti, la fantasia sadomaso di “Venus in furs “ o l’inquietante “Heroin”, brano insuperabile che apre la seconda facciata che fa piangere e rabbrividire nello stesso tempo? E poi la mai banale “The black Angel’s Death Song” o la mistica “European Son”, che chiude un album che ancora oggi mantiene il suo sapore moderno sin dalla copertina con la banana sbucciabile di Wharol. Sei mesi dopo, gli stessi Velvet usciranno con “White Light/White Heat”, l’album rock più risolutamente anti melodico che sia mai stato registrato prima del punk, un lavoro estremista, ricco di esperimenti come l’abrasiva “Sister Ray” o i due brani cantati da Morrison (ma scritti da Reed) “ The gift “ e “Lady Godiva’s Operation”, canzoni ruvide e bizzarre che determineranno definitivamente il sound dei Velvet, grazie anche a testi macabri o spaventosi. Senza dimenticare “I heard her call my name” , con la chitarra di Reed che suona come un sitar o la “graziosa” Here she comes now “, brani che - insieme agli altri- hanno aperto nuove vie al rock, hanno indicato percorsi, hanno influenzato generazioni di musicisti. Nel terzo lavoro, dal titolo semplice , “The Velvet Underground “ la band, o meglio il despota Lou Reed, fa a meno di John Cale, sostituendolo con Doug Yule, un buon musicista, di bell’aspetto, ma nulla che lo potesse minimamente avvicinare all’estro creativo del gallese. E i risultati furono evidenti sin dalle prime note: un cambio di direzione artistica, una copertina grigia e sfocata, un calo di ritmo, un abbassamento di energia, ma dentro tanta buona musica. Infatti, canzoni come “Candy Says”, “That’ the story of my life “ e “Pale Blue Eyes “ sono gemme purissime, nate dalla penna di Reed, dal suo stile fuori dal comune, dalla sua indubbia genialità malinconica. Tante buone sensazioni con la musica scarna che percorre l’intera gamma delle emozioni umane, insomma un altro lavoro maiuscolo per una band che va annoverata per forza tra le più importanti della storia del rock. Nel 1970, esattamente come i Beatles, finisce la storia dei Velvet Underground: Lou Reed è distratto dalle sostanze stupefacenti, Morrison rientra momentaneamente ma preferisce lo studio della letteratura, Tucker è incinta, pur tuttavia “Loaded” è un gran disco di rock’n’roll classico. Non avrà la forza devastante del primo disco, la rabbia del secondo, ma le canzoni di Reed portano il marchio di un fuoriclasse . Come “Sweet Jane”, capolavoro senza tempo, “Who Loves The Sun “, “Rock’n’roll “, “New Age”, “Oh Sweet Nothin’”, brani classici che raccolgono nuovi fans , increduli che la storia volga al termine. Ed infatti, nulla di accostabile a questi lavori uscirà in futuro, considerato che “Live At Max’s Kansas City” del ‘72 è pessimo nella qualità e “Squeeze” dell’anno successivo non vede nessuno dei membri originali, ma solo Doug Yule che mantiene ostinatamente la sigla per un disco insulso, dal sapore pop, per nulla assimilabile alla forza dirompente dei Velvet. Furono rivoluzionari, dirompenti, innovativi, ma la stanchezza e l’amarezza di Lou Reed ebbero la meglio nella separazione che fu senza dubbio traumatica e sofferta: ”Quell’estate stavano succedendo un sacco di cose. Interiormente, all’interno del gruppo, nel contesto del nostro ambiente. Una situazione che poteva essere risolta soltanto con un drastico allontanamento. Me ne andai perché non avevamo soldi, mi accorsi che stavo facendo quello che mi costringevano a fare, non sono una macchina che sale su un palco e si mette a ripetere le canzoni a pappagallo. Volevo fare qualcos’altro, quello non era il mio posto, non volevo diventare membro di un gruppo pop da classifica pieno di fan”. E così staccò la spina dai Velvet. 
Fine delle trasmissioni.
Antonio Ludovico 

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